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COMICS GALLERY

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IL VIGILANTE

 

 

 

 

 

Il cielo sopra Milano venne solcato da un rapido volo di rondini, mentre l'orizzonte si andava via via schiarendo preannunciando un'alba primaverile, fresca e luminosa.

Ma lo Sconosciuto non ci fece caso.

Era troppo occupato.

Nell’ombra del vicolo, stava osservando il sangue scuro e tiepido che colava lentamente lungo il tessuto sintetico del suo costume, impregnandolo poco a poco.

Strinse un poco di più la mano attorno alla gola della sua vittima, che gorgogliò qualcosa di confuso e strozzato, continuando a soffiare schizzi emorragici dalle narici.

Era impressionante la quantità di liquido che sgorgava da quel naso rotto, sembrava non finire mai. Premette ancora, fino a percepire le arterie del collo pulsare all’impazzata sotto le sue dita, come piccole pompe. Gli piaceva la sensazione che gli dava sentire accelerare il battito di quell’uomo che sgambettava frenetico a mezz'aria. Di più ancora, l'espressione nei suoi occhi sbarrati, spalancati come due finestre attraverso le quali  si  potevano vedere con chiarezza terrore e impotenza.

La gente normale non si sarebbe mai abituata a quelli come lui.

Allentò la presa e lo lasciò stramazzare al suolo, concedendosi un sorriso mentre lo osservava tossire e rantolare ai suoi piedi.

-Dhosa huoi ha meh…- domandò il povero Cristo, sputacchiando e con gli occhi colmi di lacrime. La pronuncia non era un granché, a causa del setto nasale rotto.

-Non ho capito.- rispose lui con maligna allegria.

-Dhosa huoi?- piagnucolò l’uomo, il cui naso aveva ormai raggiunto le dimensioni di una patata, una patata rossa e sanguinante.

Lo Sconosciuto studiò con attenzione la frattura scomposta bilaterale della cartilagine. Probabilmente non sarebbe riuscito mai più a respirare dal naso. Poco male.

-I soldi.-

L’uomo a terra non se lo fece ripetere e si portò velocemente le mani alle tasche.

Lo Sconosciuto alzò rapidamente uno schermo, per precauzione. Non sarebbe stata la prima volta che qualcuno tentava una sortita dell’ultimo minuto con un coltello a serramanico, o anche solo con un taglierino. Ma tutto ciò che estrasse fu un rotolo di banconote sgualcite che gli porse con mano tremante. Lo Sconosciuto lo afferrò, e l'infilò con noncuranza in una delle tasche della sua cintura.

Poi fissò l'uomo.

Il suo sguardo, benché seminascosto dalla maschera, era quello di qualcuno che non ammetteva repliche. Uno sguardo implacabile.

-Anche la roba.- disse infine.

L’altro sussultò.

-Ioh…ioh…- biascicò, ma non riuscì a finire la frase. Si prese un manrovescio sulla bocca che lo sollevò dal suolo e gli spaccò entrambe le labbra.

Ragliò un lamento lungo e sbrodoloso, poi alzò le mani, e con la bocca piena di sangue tentò invano di articolare qualcosa.

Sospirando, lo Sconosciuto si inginocchiò al suo fianco.

-Non ho capito niente.-

L’uomo inspirò gorgogliando, poi parlò piano.

-La hoba hon è miah…se he la do mi ammaffano...- frignò.

Lo colpì nuovamente sulla bocca, questa volta con le nocche, spezzandogli entrambi gli incisivi con uno schiocco secco. Il disgraziato si voltò sul fianco ululando e coprendosi il viso. Lui gli concesse alcuni minuti per piangere, poi lo afferrò e lo voltò verso di sé.

-La roba.-

L’uomo lo guardò implorante, con il volto ridotto ad una maschera di sangue. Azzardò un timido no con la testa.

Quando lo Sconosciuto alzò di scatto il pugno chiuso, si schermì il volto con le mani urlando qualcosa che poteva sembrare -No, basta!- a chi avesse avuto buon orecchio.

Il colpo calò, e giunse con forza soprannaturale. Colpì l’asfalto a pochi centimetri dalla testa dell’uomo, sfondando il manto stradale come fosse polistirolo, un urto simile a quello di un ferro da stiro gettato da un tetto.

L’individuo si raggomitolò rapidamente su sé stesso squittendo, con una chiazza di urina che si andava allargando sui suoi pantaloni. Con le mani che gli tremavano peggio di quelle di un alcolizzato all’ultimo stadio, tentò disperatamente di aprire una tasca del suo giubbotto.

Al decimo tentativo fallito, lo Sconosciuto sbuffò e gli strappò l'indumento di dosso. Vi trovò all'interno un sacchetto di plastica trasparente, attraverso il quale si potevano vedere numerose bustine di polvere bianca.

Eroina.

Si guardò intorno, e scorta poco lontano la griglia di uno scolmatoio in ghisa, la scardinò dal suolo con la mano libera e gettò nel pozzetto sottostante tutte le dosi.

Poi si girò verso l’uomo.

-E’ l’ultima volta che ti voglio vedere qui, e con qui intendo Milano, tutta la città. La prossima volta che ti trovo, sono cazzi tuoi. Quello di oggi era solo l’aperitivo.-

L’uomo a terra non rispose, si limitò a rinculare sull’asfalto, come se l’unica cosa che desiderasse al mondo fosse di non essere lì.

Non l’avrebbero mai più rivisto da quelle parti, poco ma sicuro.

Prese una breve rincorsa, lo Sconosciuto raggiunse il tetto più vicino con un paio di salti, e sparì dalla vista.

L’alba ormai si stava stagliando netta e limpida dietro i palazzi, inondando lentamente di luce gli ampi viali alberati del centro, ancora deserti e silenziosi se non per il lento sferragliare di qualche tram che terminava il turno di notte.

 Sembrava quasi di poter sentire la metropoli sonnecchiare ancora pigramente nella propria inerzia, come in attesa di una spintarella per rimettersi in marcia.

Una volta, per lui quello era un momento speciale. L’ora in cui faceva rientro a casa e salutava la propria doppia identità, tornando ad essere uno qualunque, con un lavoro e un mutuo da pagare. Ma quella era un'altra vita, una vita in cui non sarebbe mai rientrato dalla sua ronda con le mani sporche di sangue e le tasche piene. Quando ancora si faceva chiamare il Catturatore.

Ormai erano passati anni da quando aveva rinunciato a quel nome, e dopo aver cambiato costume e abitudini non si era più dato la pena di cercarne un altro.

Da allora la stampa gli aveva rifilato parecchi nomi d'arte, come il Vendicatore Grigio, il Vigilante Notturno, il Flagello...  ma ad aver avuto maggior successo col pubblico era stato il primo: lo Sconosciuto.

Così, ironia della sorte, mentre come Catturatore era stato uno tra i super eroi meno conosciuti, con il nome dello Sconosciuto era diventato famoso. L'aver raggiunto la notorietà che tanto desiderava solo adesso, quando per lui era diventata una cosa vuota e priva di valore, aveva un non so che di poetico. O anche no.

Con un balzo prodigioso proiettò il proprio corpo attraverso il vuoto che separava due tetti, per poi tuffarsi in un vicolo scarsamente illuminato. Atterrò silenziosamente nell’ombra, quasi invisibile nel suo costume scuro. Sarebbe stato necessario un occhio straordinariamente sensibile per scorgerlo, ma non era un buon motivo per non stare all’erta.

Lui lo sapeva molto bene.

Fin troppo.

Raggiunse velocemente un vecchio edificio in fondo al vicolo e con cautela scalzò un’inferriata da cui si sarebbe introdotto nello scantinato. Si guardò intorno. Erano già diverse notti che utilizzava quel tragitto, e decise che per non correre rischi inutili non l’avrebbe più usato nelle settimane a venire. Meglio non dare nell’occhio.

Giusto.

Avrebbe dovuto pensarci prima, però.

Se ci avesse pensato prima, adesso non sarebbe stato lì, in quel cazzo di vicolo, sporco di sangue e solo come un cane.

Ricacciò indietro i ricordi con un ringhio.

Erano passati più di sei anni dalla notte dell'esplosione,  ma gli bastava ancora una semplice associazione d'idee per rischiare di sprofondare nel pozzo senza fondo della depres- sione. Per le altre persone il passare del tempo offuscava i brutti ricordi, insieme al dolore che si portavano appresso, ma questa regola per lui non valeva. No, cazzo, lui era speciale.

Lui aveva il sogno. E il sogno gli avrebbe sempre rammentato la sua colpa.

Strinse i pugni e respirò a fondo.

Dopotutto, sarebbe stato meglio se fosse morto anche lui, quella notte di sei anni fa. Ci ripensava spesso, ultimamente.

Ma la sua morte non sarebbe servita a nessuno. La sua vita sì invece, sarebbe servita a farla pagare a tutti.

Gli scappò una risatina, mentre si infilava nello stretto passaggio e risistemava al suo posto la grata.

-Fargliela pagare a tutti!- pensò -Oh Cristo, ci manca solo questo, mettersi a parlare come un super eroe dei fumetti! E chi cazzo sono, il Punitore?-

Scosse la testa e si diresse verso il fondo dello scantinato immerso nel buio, muovendosi con cautela. Qualcuno poteva aver portato lì altre cianfrusaglie dal giorno prima, e non voleva svegliare tutto il vicinato inciampando in una cassa piena di vecchie stoviglie. Una volta gli era capitato, ed era stato estremamente imbarazzante.

Sollevò delicatamente da terra un grosso mobile polveroso e lo spostò di lato, scoprendo un’apertura praticata nel vecchio muro di sassi e mattoni dietro di esso. Dava accesso ad un antico camminamento segreto del periodo rinascimentale, di cui nessun altro era al corrente. Una volta dentro risistemò la madia al suo posto, poi estrasse una piccola torcia led dalla cintura e si incamminò verso la sua meta a passo spedito.

In poco più di mezz’ora raggiunse lo snodo che conduceva alla rete fognaria, e dopo un arzigogolato percorso infilò la galleria fiocamente illuminata che portava alla Tana.

Era stato lui a darle quel nome, perché comunque per nessun motivo al mondo l’avrebbe chiamata "casa". Si fermò di fronte alla pesante porta blindata e digitò velocemente la password sul tastierino incassato nel muro di cemento, e come ogni volta si domandò quale fosse la procedura esatta per farsi costruire un rifugio segreto. Insomma, non è che si potesse chiamare un’impresa edile e dirgli "Sapete, voglio un appartamento blindato dieci metri sottoterra, ma non lo deve sapere nessuno". In pieno centro storico, poi!

Quel covo originariamente apparteneva ad un altro super uomo, un ladro di professione che si faceva chiamare il Fantasma e che in quel momento stava scontando una lunga pena detentiva in uno stato del Medio Oriente. Aveva agito con leggerezza e si era fatto beccare da un eroe locale, un tizio molto duro con un nome d’arte praticamente impronunciabile fuori dal Golfo Arabo e in seguito, come accadeva sempre in quei casi, era partita la corsa allo sciacallaggio delle sue proprietà da parte del sottobosco super criminale.

Lo Sconosciuto aveva trovato quel posto mentre dava la caccia ad una mezza tacca che aveva fatto da spalla occasionale al Fantasma.

Così, dopo aver messo fuori gioco il tizio ( sfortunatamente per lui era accaduto dopo che il Catturatore aveva ceduto il passo allo Sconosciuto ed ai suoi metodi poco delicati, per cui l’amico era finito a trascorrere i suoi giorni su di una sedia a rotelle ) la prima cosa che aveva fatto era stata bloccare tutti i vecchi tunnel d'ingresso con delle frane, creare degli accessi alternativi che conoscesse lui solo e prendere possesso della proprietà.

Appena entrato, la porta si richiuse automaticamente alle sue spalle e si accesero gli aeratori, il condizionatore e il sistema di illuminazione.

Dopo pochi istanti partì lo stereo: Sinfonia n. 8 di Schubert.

Il figlio di puttana che in quel momento stava marcendo in una cella di massima sicurezza a Kabul si trattava bene. L’appartamento era arredato con gusto, e totalmente autosufficiente. C’erano una palestra, una lavanderia, perfino una piccola piscina e un bagno turco. Sembrava quasi una delle Case del Grande Fratello, o la versione di lusso della Bat-caverna. Lo Sconosciuto non avrebbe mai potuto permettersi un posto del genere, lui prima abitava in un tre locali con box, di quelli con le persiane di plastica e il riscaldamento centralizzato.

Ma era casa sua.

Quel posto invece gli era alieno ed estraneo nonostante ci vivesse da anni, così come gli era diventata aliena ed estranea la sua vita.

Si guardò i guanti. Moto Sport Kevlar e Carbonio con tecnologia 3M/Bestar, comprati su Ebay. Si chiese se le macchie di sangue sarebbero venute via, quando li aveva acquistati si era scordato di chiederlo. Li fissò a lungo, ricordando l’espressione stupefatta dell’uomo quando lo aveva colpito, e il terrore assoluto che era seguito. Rabbrividì un poco. Un colpo ancora e lo avrebbe ucciso. Ma non poteva. Fino a quando non avesse fatto nulla di irreparabile la Polizia, i Carabinieri e i colleghi avrebbero continuato a sopportarlo. Ma forse non era quello il motivo, forse non lo avrebbe fatto comunque. Non lo sapeva, ma era contento di non averlo dovuto scoprire. Era già cambiato fin troppo dopo quello che gli era successo.

Si sfilò i guanti con rabbia ed iniziò a svestirsi: prima il caschetto protettivo (Mask Karate WKF modificato), poi la protezione per il collo in goretex (del tutto inutile contro i colpi, ma utilissima per non prendere freddo, sui tetti la notte tirava un vento che non ci si credeva), la cintura portaoggetti FatMax, il corpetto da pilota e i Protective Pants della Dainese, ginocchiere da ciclista di cui non ricordava la marca e un paio di anfibi leggeri Magnum Elite della Spider.

Era sorprendente come la tenuta di un motociclista fosse adatta alle necessità di un super eroe. Perfino il costume degli ultimi film di Batman aveva più o meno un aspetto simile, anche se nessuno sano di mente sarebbe andato in giro a sedare risse con addosso un mantello. Ma i super eroi dei film e dei fumetti erano molto diversi da quelli veri, così come James Bond era diverso dai veri agenti segreti e John Wayne dai veri cow boys.

Sospirò, e dopo aver controllato tutto il materiale lo ripose con estrema cura, poi si sfilò la tuta da aerobica che portava sotto tutto il resto e la buttò in lavatrice.

Infine, afferrò la cintura multitasche e si stravaccò sul divano, in mutande. Prima della doccia era meglio controllare quello che ormai chiamava "l’incasso della serata". Aprì la chiusura in velcro di una delle tasche e ne estrasse il rotolo di banconote che aveva tolto al tizio nel vicolo. Erano circa quattromila cinquecento euro, in tagli vari e tutte spiegazzate, e Dio solo sapeva da dove arrivassero. Erano la tassa della disperazione, i soldi dei tossici. Potevano essere il ricavato della vendita del proprio televisore come del proprio corpo, o il frutto di una rapina o di uno scippo. O i soldi della pensione della nonna. Era per quel motivo che derubava solo gli spacciatori, perché con tutta la buona volontà non sarebbe mai potuto risalire ai proprietari di quel denaro, e se anche ci fosse riuscito, quelli se li sarebbero nuovamente sputtanati il giorno stesso che glieli avesse restituiti.

Si manteneva così, da quando aveva rinunciato al mondo reale. D’altra parte, non c’erano molti altri modi di ricavare denaro dalla professione, tranne forse per chi aveva raggiunto il vero successo, gli eroi dei gruppi famosi, con Fans Club, siti internet, profili Facebook, sponsor ufficiali e incarichi govern-ativi. I team più importanti, ovviamente, erano quelli ameri-cani. Gli Stati Uniti erano stati i primi a percepire l’importanza mediatica dei super eroi, e avevano cominciato a pompare denaro pubblico nella loro attività fin da prima della seconda guerra mondiale. In gran parte dell’Europa e in Giappone il boom era arrivato negli anni ’60 ma in Italia il fenomeno stentava ancora a decollare, nonostante una tradizione che ormai vantava più di cinque decadi d'anzianità. Nella patria di grandi eroi ufficialmente riconosciuti anche all’estero come il Giustiziere o il Corvo, i super esseri in costume erano ancora guardati come una bizzarria necessaria che lo Stato trattava alla stregua di volontari bene accetti, vale a dire che non sganciava una lira.

Da qui la necessità di autofinanziarsi.

Sapeva bene di non essere il solo a farlo, anche se non ne parlava nessuno. Quella dell’autofinanziamento era forse l’attività super eroistica più apprezzata dalle forze dell’ordine (anche se ovviamente questo passava sotto silenzio) perché toglieva fondi alla criminalità organizzata più di qualunque retata o sequestro, colpendo la rete di distribuzione alla base senza dover dare giustificazioni a nessuno.

Agire in maniera criminale colpendo il crimine. Ecco un’altra cosa che i super eroi immaginari non facevano quasi mai.

Si sdraiò lungo sul divano. Stava iniziando a sentir calare dentro di sé un profondo senso di prostrazione, di spossatezza. Non si trattava di stanchezza fisica, ma di un qualcosa che aveva dimora nel profondo, e che ogni tanto spuntava fuori quando meno se lo aspettava.

Qualcosa che lo portava a fare brutti pensieri.

Che lo spezzava dentro.

Quindi ora era tutta lì la sua vita? Picchiare a sangue qualche delinquente, raggranellare un po’ di soldi, riposarsi e poi ricominciare tutto da capo?

Improvvisamente, senza motivo, gli apparve alla mente il volto di Monica, sorridente e dolce, e le lacrime iniziarono a rigargli le guance, calde quando uscivano e fredde quando terminavano il loro tragitto lungo il collo.

Si passò una mano sul viso per pulirsi, e si accorse di avere le guance ruvide. Si era scordato di radersi.

Per qualche minuto la cosa lo turbò in maniera innaturale. Non doveva dimenticarsi di quelle cose, erano quei dettagli che lo tenevano ancorato a quel poco che restava della sua sanità mentale. Quelle piccole faccende quotidiane, come lavarsi i denti, mettere i piatti nella lavastoviglie, apparecchiare la tavo-la, pulire in giro.

Gli venne da ridere.

Gli veniva sempre da ridere quando si ricordava di dover pulire, perché ogni volta si immaginava Superman che passava l’aspirapolvere nella Fortezza della Solitudine commentando che avrebbe dovuto assumere un maggiordomo come aveva fatto Batman. Rise senza senso per parecchi minuti, e più si sforzava di smettere più gli veniva da ridere, una ridarella convulsa e senza freni. Finalmente, al terzo tentativo riuscì con uno sforzo a smorzare gli ultimi rimasugli d'ilarità.

Respirò a fondo.

-Cazzo, sto andando a rotoli.- pensò.

Sapeva benissimo cosa gli stava succedendo.

Ormai era da sei giorni che non dormiva, un record anche per lui, nonostante le sue capacità. Per un istante pensò di prendere qualche eccitante e di buttare giù il tutto con una caraffona di caffè, ma scartò subito l’idea. Sapeva che non era una soluzione, rimandare non serviva a niente.

Optò per il rimedio opposto, e andò a prendere dal cassetto dei medicinali la scatola dei sonniferi.

Halcion.

Non l’aveva comprato lui, faceva parte dell’eredità del vecchio proprietario che evidentemente soffriva di insonnia. Chissà, forse la cattiva coscienza lo teneva sveglio.

Ingoiò un paio di pillole con un sorso d’acqua, e si buttò nuovamente sul divano. Sapeva che avrebbe dovuto farsi una doccia, cambiarsi la biancheria e andare a letto, ma tutto quel rituale lo terrorizzava. In un qualche modo addormentarsi sul divano gli faceva sembrare la cosa meno ufficiale, come se non andasse davvero a dormire, ma si limitasse solo a schiacciare un pisolino. Una cosa veloce, senza sogni. O almeno era quello che sperava disperatamente.

Dio, come sarebbe stato bello un sonno senza sogni.

La cosa più bella del mondo.

Si girò e rigirò sul divano in preda all’agitazione, l’attesa era la cosa peggiore. I minuti parevano ore, e l’ansia sembrava tenerlo sveglio. Non sapeva se esserne contento o no.

-Forse è meglio se accendo la televisione e mi guardo qualco-sa- disse tra sé e sé -Così non ci penso.-

Ma quando si alzò per dirigersi al televisore, dopo pochi passi sentì girargli la testa, e ricascò barcollando sui cuscini di gommapiuma.

Si addormentò dopo circa un minuto.

E come al solito, sognò.

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