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COMICS GALLERY

3

 

ALTER EGO

 

 

 

 

 

Nella Tana, il silenzio venne spezzato dall’urlo roco e sconvolto dello Sconosciuto. Era caduto a terra in lacrime e gridava senza contenersi.

Il sogno era stato orribile, distruttivo. Era sempre lo stesso,  ma gli sembrava ogni volta peggiore.

Si tirò su e si sedette sul divano, stravolto, asciugandosi gli occhi con il palmo della mano. Sapere che l’incubo era finito non gli era di alcun aiuto, ma si fece comunque forza e si trascinò in bagno a cercare un po’ di conforto sotto il getto d’acqua della doccia. Dopo qualche minuto iniziò a sentirsi meglio, percependo il familiare sollievo che provava sempre al pensiero che per un po' di giorni non avrebbe più avuto bisogno di dormire, grazie ai propri poteri.

Uscì dalla stanza da bagno e girò per casa, nudo e agitato, finché non raggiunse la cucina e racimolò il necessario per fare colazione. Era una curiosa abitudine, un residuo della sua vecchia vita, quello di mangiare dopo aver dormito. Non importava che ora fosse, se aveva dormito al risveglio pensava -Devo fare colazione.-

Eseguì tutto il rituale, si preparò tè, fette biscottate, miele di arancio e Nutella e sgranocchiò il tutto sorseggiando con calma la bevanda calda. Una volta terminato mise le stoviglie usate nell’acquaio e pulì meticolosamente il tavolo con una spugna umida.

Poi si guardò intorno, e capì che se non fosse uscito da lì alla svelta avrebbe cominciato ad andare fuori di testa.

Non era facile vivere senza avere più un’identità segreta.

Di norma  un super eroe era un individuo che viveva un'esistenza più o meno comune, e che di tanto in tanto indossava una tuta da combattimento per andare a cercare di rendere il mondo un posto più decente in cui vivere.

Rinunciare alla propria identità civile per diventare un vigilante a tempo pieno, invece, significava diventare un tizio in costume che ogni tanto si travestiva da persona normale per uscire a fare quattro passi in centro. Il personaggio prendeva il sopravvento sulla persona, e si entrava in un territorio molto pericoloso fatto di assoluta clandestinità e di una quasi totale assenza di relazioni.

Era una scelta estrema.

Si guardò allo specchio. Se avesse incontrato qualcuno della sua vecchia vita, lo avrebbero riconosciuto? Non era mai stato un mago dei travestimenti, ma aveva fatto del suo meglio: si era fatto crescere il pizzetto e lo aveva tinto di biondo insieme alle sopracciglia, e si era anche rasato i capelli a zero. Forse non avrebbe superato un esame accurato, ma così a prima vista, con un bel paio di occhiali scuri, sarebbe potuto passare inosservato. Gli abiti poi erano tutti nuovi, ovviamente, dato che quelli vecchi erano rimasti distrutti nell’incendio di casa sua.

Si incupì. Non era il caso che ci pensasse in quel momento, non quando aveva appena avuto l’incubo.

Afferrò il portafogli e ci infilò qualche banconota dal rotolo che aveva lasciato sul tavolino davanti al divano la sera prima, poi si avviò all’uscita.

Chiuse la porta blindata cambiando la combinazione, e  attraversò a passo spedito numerosi cunicoli, fino a raggiungere un tunnel secondario che terminava in una pesante paratia di metallo. Sollevò una piastrina di alluminio che copriva uno spioncino grandangolare e ci sbirciò attraverso.

Nessuno in vista.

Spostò la grossa lastra metallica, entrò cautamente nel tunnel di servizio della metropolitana cui dava accesso, e la riposizionò al suo posto. Poi, dopo essersi accertato che non fosse in arrivo un convoglio,  salì velocemente sul marciapiede sopraelevato che correva lungo la parete e lo percorse fino a raggiungere la fermata più vicina. Arrivato a pochi passi dalla banchina appoggiò entrambe le mani al muro di cemento e si concentrò, creando un'interferenza nel  flusso di corrente che ronzava nei cavi elettrici poco lontano. Per qualche secondo le luci al neon che illuminavano la stazione sfarfallarono un po’ e le telecamere di sicurezza registrarono solo un disturbo elettrostatico, e lui sfruttò quel breve intervallo di distrazione generale per emergere dal buio del tunnel e mescolarsi tra la folla. Aveva altre sei uscite del genere sparse lungo le linee della metropolitana, non molte a dire il vero, ma d’altro canto non usciva spesso in borghese.

Solcò la moltitudine di viaggiatori in attesa calcando il linoleum  nero e consunto con passo sicuro, sorridendo divertito mentre osservava gli individui frettolosi che salivano a grandi falcate i gradini della scala mobile in movimento. Milano, la città che va sempre di corsa…

Era la sua fermata preferita, quella della Stazione Centrale. Gli piaceva il modo in cui gli si parava dinnanzi all’uscita, occupando tutto lo spazio visivo con la maestosità megalitica del suo immenso portico.

Si guardò intorno. Era da tanto che non usciva di giorno, e il cielo appariva incredibilmente terso, di un azzurro così profondo da sfumare nel cobalto. In alto campeggiava un sole brillante e netto come un laser, che disegnava sulla piazza antistante delle ombre talmente precise da sembrare dipinte.

La metropoli appariva come una cartolina ritoccata, in quella mattinata primaverile.

Ma Milano riusciva ad essere bella in ogni periodo dell’anno, secondo lui, anche in autunno, o in inverno. Con la neve poi era magnifica, assumeva un fascino particolare, tutto suo.

Non era mai riuscito a capire perché molte persone non la apprezzassero.

Certo, non era una città appariscente come Roma o Firenze, sempre pronte a mettere in mostra la propria bellezza per i loro ammiratori. No, Milano era più simile ad una signora riservata, che si svelava poco a poco solo a chi aveva la pazienza di volerla corteggiare, di conoscerla. Solo allora gli mostrava i suoi cortili nascosti, gli angoli segreti, le sue residenze signorili con i loro giardini, occultate nelle vie traverse. Lui la conosceva molto bene, la attraversava ogni notte, osservandola dall’alto dei tetti.

Ora però desiderava solo attraversarla come uno qualunque dei suoi abitanti, calpestando l’asfalto delle sue strade e camminando senza una meta precisa tra le vetrine colorate e le facciate dei suoi palazzi.  Ma soprattutto voleva mescolarsi alla gente, a quel vorticare di individui affaccendati in chissà cosa.

C’era chi andava al lavoro, chi faceva shopping... Un paio di ragazze dall’aria nordica alte e appariscenti, probabilmente modelle, passeggiavano con l’espressione altera di chi si crede la padrona del mondo. Poco più in là, invece,  un nordafricano contrattava con un paio di ecuadoriani l’acquisto di una borset-ta in pelle finto moda, a due passi da un negozio di lusso che esponeva in vetrina gli stessi articoli. Davanti ad un fast food alcuni ragazzi che probabilmente avevano bigiato la scuola stavano scherzando tra di loro, indossando calzoni col cavallo ultrabasso ed enormi scarpe da ginnastica high tech che li facevano sembrare dei robot giapponesi.

Quante emozioni, pensieri, problemi, opinioni. Avrebbe voluto fermarsi a parlare con tutte le persone che gli passavano accanto, chiedergli chi fossero, che lavoro facessero, per quale squadra di calcio tifassero…

Era la vita. Di più, era la normalità della vita.

Una quotidianità che per lui ormai era lontana, irraggiungibile.

Si fermò, leggermente intossicato da quella overdose di vitalità che la marea umana gli riversava in petto. Aveva passato troppo tempo da solo, quasi il doppio del solito, soltan-to adesso se ne rendeva conto.

-Devo decidermi a ricominciare ad uscire almeno due volte al mese- pensò. Ma lo pensava ogni volta.

Respirò a fondo e si guardò intorno, cercando di darsi una meta. Si trovava vicino ai Giardini Pubblici dell’ex zoo, quindi decise di attraversarli per tagliare in direzione di Corso Buenos Aires e puntare in Piazza del Duomo.

Il parco brillava di un verde smeraldo che pareva finto, acceso dal sole che riverberava tra gli innumerevoli fili d’erba dei prati. Si fermò, inspirando a fondo il loro profumo nell’aria.

A poca distanza da lui, una coppietta si sedette su di una panchina lì vicino, iniziando a chiacchierare. Ascoltò qualche stralcio della loro conversazione, una cosa banale, stavano decidendo cosa andare a vedere al cinema quella sera. Ma alle sue orecchie, quelle poche parole rappresentavano tutto quello che lui non aveva più.

Negli ultimi sei anni il senso di colpa e il dolore lo avevano schiacciato a tal punto che aveva completamente rinunciato a rifarsi quella parte della sua vita che gli era stata strappata.

Si era annullato nella propria missione, indossando a tempo pieno il ruolo del vigilante e sprofondando lentamente in una spirale di violenza sempre più cruenta, un oscuro riflesso di quello che stava accadendo dentro di lui, della sua corsa inconscia verso la fine.

E ormai era troppo tardi per fermarsi.

Qualcosa si era inceppato dentro di lui convincendolo che non ci sarebbe più stato spazio nella sua vita all’infuori della caccia e che rinunciare a questa sua routine avrebbe significato non avere più nulla. Semplicemente, non sapeva più come tornare indietro, aveva perso i meccanismi che gli avrebbero concesso di riemergere nel mondo reale.

Ma, ogni tanto…solo ogni tanto… qualcosa si risvegliava dentro di lui, e allora si prendeva un giorno di vacanza. Un giorno come quello, in cui smetteva di essere lo Sconosciuto, e provava quantomeno a fingere di essere una persona normale.

Si allontanò dalla coppia, gli era venuta voglia di comprare qualcosa, non importava cosa. Voleva entrare in qualche nego-zio, chiacchierare con i commessi, essere anche lui uno di quei tizi che passeggiavano per Via Montenapoleone con un mucchio di sacchetti di carta firmati e pieni di oggetti costosi. Gli prendeva sempre la mania dello shopping quando usciva, le mensole della Tana erano ricolme di una marea di soprammobili inutili, libri mai letti, portafotografie vuoti, gio-cattoli per bambini inesistenti, tutta roba di cui prima o poi avrebbe dovuto sbarazzarsi.

Era arrivato nei pressi del Museo di Storia Naturale, vicino ai cancelli di uscita del parco, quando avvertì un familiare quanto spiacevole formicolio in mezzo agli occhi.

Lo Spaccacrani cercava di contattarlo.

Tentò di ignorarlo, ma sapeva che avrebbe continuato fino a quando non lo avesse lasciato entrare. Il formicolio era stata una cortesia, equivaleva ad una bussatina discreta, un chiedere permesso. Era un’abitudine comune a quasi tutti i telepati, ma lo Spaccacrani aveva la fama di essere un emerito stronzo. L’unico motivo per cui era gentile con lo Sconosciuto era perché lui possedeva poteri che lo rendevano parzialmente immune ai suoi trucchi mentali, e quindi preferiva andarci cauto. Ma proprio per questo, se lo stava chiamando era probabile che si trattasse di qualcosa di serio.

Si sedette su di una panchina ai lati dell’edificio ottocentesco del museo, e si rilassò, permettendogli di passare.

Ebbe un istante di vertigine. Entrare in contatto con un telepate era come avere due persone nella propria testa, e non sempre era una cosa piacevole. Insieme alle parole infatti passava anche buona parte della personalità del telepate, i suoi gusti, le sue opinioni, la sua psiche. Per questo motivo lo Sconosciuto detestava comunicare con lo Spaccacrani.

-Ciao, Mauro.- esordì questi.

-Cazzo, non chiamarmi per nome! Sei scemo?- ringhiò lo Sconosciuto nella propria mente.

-Non chiamarmi…? Guarda che non è mica una telefonata, coglione! Non ci possono mica intercettare!-

-Lo dici tu. Credi di essere l’unico telepate in giro?-

-Sono l'unico a conoscere la tua password cerebrale, tranquillo!-

-Sì, tranquillo un cazzo!-

Praticamente ogni super eroe in circolazione si era fatto installare una password cerebrale da un telepate di fiducia. Li rendeva invisibili a qualunque altro telepate che non la possedesse, ed era l'unico modo per evitare che qualche malintenzionato potesse leggere nella loro mente e venire a conoscenza della loro identità segreta. Si trattava di un servizio che la comunità degli eroi telepatici forniva e promuoveva con molta energia, ma la prudenza non era mai troppa, e la regola del silenzio per quanto riguardava il proprio alter ego di solito era sacra. Tranne per lo Spaccacrani, a quanto pare.

Seguì qualche secondo di silenzio, ma lo Sconosciuto poteva avvertire l’agitazione nel vortice mentale dell’altro. Sembrava che si stesse sforzando di rimanere calmo, di non reagire, e questo non era normale nello Spaccacrani. Era un litigatore professionista.

-Senti, lasciamo perdere, va bene? Ho una cosa importante da dirti…-

-Okay, dimmi- annuì cautamente lui.

-Mi hanno passato una notizia…c’è stato un omicidio, una donna…-

-Dove?-

-A Nervi, in provincia di Genova.-

-In Liguria?!-

-Sì, in Liguria.-

-Senti, mi dispiace per la donna, l’omicidio e tutto, ma ti ricordo che io lavoro a Milano. In quella zona non c’è mica coso…come si chiama…quello col mantello!-

-Il Falco Notturno.-

-Il Falco Notturno, bravo! Scusa, passala a lui la cosa, no? Se non lo sa già, voglio dire.-

-Certo che la sa, me l’ha passata lui la cosa, come dici tu.- replicò acido lo Spaccacrani.

-E perché?-

-La donna era un agente. Faceva l’infiltrata, ed è morta in modo molto strano. Sta facendo girare la notizia tra tutti quelli che conosce, è una roba grossa. C’è dietro un giro di quelli pesanti, associazione mafiosa, sfruttamento, riduzione in schiavitù e compagnia bella. E’ un giro nazionale. Inoltre, pare che ci siano di mezzo anche dei Gene S.-

-Cazzo...Capisco, senti, mandami tutto il materiale via e-mail. Se da queste parti salta fuori qualcosa ti faccio sapere…-

-Sì, ma non è per questo che ti ho chiamato.-

-No? E per cosa, allora?-

Seguì un altro silenzio carico di imbarazzo e fastidio. Lo Spaccacrani trovava l’imbarazzo una cosa di cui vergognarsi, e si irritava sempre quando si trovava ad averci a che fare.

-E’…è per via della vittima. E’ personale.-

-La conoscevi?-

-Non personale per me, deficiente, personale per te!- sbottò -Comunque sì, la conoscevo…- mormorò nella sua testa subito dopo. La tensione nei suoi schemi mentali pareva farsi ogni istante più tangibile, quasi fisica.

-O almeno credo, non lo so…- aggiunse.

Lo Sconosciuto cominciava ad averne abbastanza.

-Allora, la conosci o no? Non ci sto capendo un cazzo!-

-Senti, il punto non è se la conosco io o no! E’ che…cazzo, come te lo dico?-

-Come mi dici cosa?-

-Senti, è la donna morta, va bene? Lei è…cioè…è…senti, ti posso inviare un’immagine?-

-Se serve a capirci qualcosa, volentieri! Mi sembri rincoglionito!-

-Sei seduto?-

-Sì.-

-Sei in un luogo pubblico, vero?-

-Lo sai benissimo dove sono! Vuoi arrivare al dunque?- replicò lo Sconosciuto, con una certa insofferenza.

-Allora, io adesso ti mando l’immagine, ma tu resta calmo, mi raccomando…-

-E che sarà mai? Guarda che ne ho viste di cose brutte…-

-Okay, arriva. Rimani calmo, però.- ripeté ancora.

Vi fu come una strana sovrapposizione nella testa dello Sconosciuto, poi l’immagine arrivò. Era la donna.

-Cristo!- urlò a pieni polmoni, alzandosi di scatto dalla panchina.

-Pezzo di merda!- sbraitò picchiandosi con i palmi delle mani contro la fronte, come nel tentativo di far sparire non solo l’immagine appena vista, ma anche il suo ricordo.

-Ci sono problemi?- disse una voce dietro di lui. Si voltò di scatto, fuori di senno, e si trovò di fronte un carabiniere in divisa. Poco più in là c’era il suo collega. Lo Sconosciuto si bloccò di colpo. Non ci voleva, si era fatto notare.

-No.- improvvisò -Mi ha punto una vespa, mi ha fatto un male cane!- si lamentò con una smorfia di dolore, sfregandosi con forza una mano sul collo.

L’agente lo fissò preoccupato -Va tutto bene? E’ allergico?-

-Eh?- fece lui, alla sprovvista.

-Dico, è allergico alle vespe? Devo chiamare un’ambulanza?-

-No, no, non si preoccupi. Davvero. Fa solo un gran male…-

-C’è una farmacia più avanti.- disse il carabiniere, indicando il viale al di là della cancellata di ferro -Si faccia dare qualcosa contro le punture d’insetto, non si sa mai.-

-Grazie.- disse lui allontanandosi, con la mano sempre premuta sul collo.

Si diresse velocemente e a passo sostenuto nella direzione indicata, poi, non appena fu abbastanza lontano, si infilò in una stradina laterale, entrò in un piccolo bar, bevve un caffè, chiese dove fosse il bagno e ci si chiuse dentro. Finalmente solo, svuotò la mente e permise allo Spaccacrani di comunicare nuovamente con lui.

-Cazzo, ti avevo detto di stare calmo!- esordì quest’ultimo.

-Io ti ammazzo- mormorò serio lo Sconosciuto -Giuro, ti trovo e ti ammazzo. Guarda che non scherzo. Puoi provare tutti i giochetti telepatici del cazzo che vuoi per scamparla, ma io ti trovo e ti ammazzo.-

-Ascolta…-

-No, ascolta un cazzo. Non lo so perché hai voluto farmi questa cosa, ma io te la faccio pagare. Tu non sai in cosa ti sei messo.-

-Cristo, mi vuoi ascoltare? Non è uno scherzo! L’immagine è vera!-

-Non è possibile!-

-Ti giuro! Perché credi che ti abbia chiamato?-

-E allora cos’è? Una sosia?-

-Non lo so! Quando l’ho vista mi è preso un colpo!-

-Va bene. Mandami tutto. Tutto quello che hai.-

-Ti senti bene?-

-Nonostante il tuo magnifico tatto? Sì, abbastanza.-

-Non sapevo come dirtelo…- mugugnò lo Spaccacrani.

-Già, e allora hai pensato che un’immagine vale più di mille parole, giusto?-

-Senti…-

-No, senti tu: vaffanculo! Comunque, come ha fatto il Falco Notturno a scoprire che era un’agente sotto copertura, chiunque fosse lei?-

-Perché è uno che ha un sacco di contatti... Lavora molto gomito a gomito con la polizia. Sottobanco, ovviamente, sai, niente di ufficiale. Ma è uno di quelli culo e camicia con le forze dell’ordine.-

-Ci voglio parlare.-

-Posso provare a vedere se riesco a procurarti un incontro, ma mi sa che dovrai spostarti tu.-

-Tu procurami l’incontro, e io ci vado. Pure se è su Marte.-

-Va bene, ti faccio sapere.-

-E non mi contattare telepaticamente. Mandami un e-mail o telefonami, come fanno tutti. Ho già il mal di testa.-

E chiuse la comunicazione.

Come al solito, si domandò perché l'unica persona al mondo a conoscere la sua vera identità dovesse essere proprio lui. Si sarebbe volentieri fatto modificare la password cerebrale per non essere più disturbato, ma questo purtroppo poteva farlo solo il telepate che gliela aveva installata.

E il Mentore era morto due anni prima.

Fine della vacanza, comunque.

Nel modo peggiore che avesse mai potuto immaginare.

Strano, però.  La stava prendendo meglio di quanto pensasse. Forse era solo la botta a caldo, probabilmente doveva solo metabolizzare ancora la cosa, prima di farsi travolgere dalle emozioni. O semplicemente l’avvenimento era così assurdo che ancora il suo cervello si rifiutava di trattare come un evento reale il fatto che quella donna fosse il ritratto, identico in ogni particolare, della persona che lui vedeva in sogno ogni volta che si addormentava.

Era Monica.

Ed era morta insieme a lui sei anni prima.

 

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